giovedì 31 dicembre 2015

Popoli, Paesi e guerre d'oggi. 1. Libia. 3. Il colonnello Gheddafi visto dal giornalista Gian Franco Vené, trent'anni fa, nel dicembre 1985

Gheddafi nel 1985: propaganda e proselitismo anti-imperialista


Pubblico qui un articolo del giornalista Gian Franco Vené comparso su "Storia illustrata" del dicembre 1985: esattamente trent'anni fa. Fra le interviste di giornalisti italiani al colonnello e leader libico rimangono famose soprattutto quella realizzata da Oriana Fallaci uscita sul “Corriere della Sera” il 2 dicembre 1979 e quella televisiva di Enzo Biagi del 22 marzo 1986 effettuata otto ore prima del bombardamento americano di Tripoli, ma anche questo articolo di Vené nel quale il giornalista italiano dopo una sua intervista al colonnello racconta le sue impressioni sul leader libico e la sua rivoluzione. mi sembra significativo perché ci riporta ad un anno di svolta nella politica del colonnello, cioè in pieno dicembre 1985. 
Dal settembre 1969 Gheddafi è arrivato al potere in seguito ad una rivolta di giovani militari di ispirazione nazionalista e socialista nasseriana che ha defenestrato re Idris e cacciato gli americani e i britannici dalle loro basi militari nel Paese. Dopo una azione rigidamente anticomunista ed antisovietica esplicata nei primi anni '70 e basata su una ideologia che potremmo definire nasserian-coranica (un socialismo  nasseriano, prevalentemente laico, costantemente corroborato e corretto da pratiche e richiami all' ortodossia coranica) dei primi anni '70, azione che  porta il colonnello ad una continua frizione con i regimi baathisti di Damasco e Baghdad e col regime marxista di Aden, Gheddafi a partire soprattutto dal 1975, rispetto a questa sua precedente politica, effettua una "svolta",  con la pubblicazione del suo Libro Verde (1975) e la proclamazione della Gran Giamahiria (جماهيرية‎) Araba Libica Popolare Socialista (1977) e delinea gli aspetti ideologici di una "Terza posizione", alternativa al capitalismo e al comunismo, basata sul potere diretto delle masse mediante i "comitati popolari" e  della sua nuova azione politica interna ed estera nel solco del socialismo e del nazionalismo arabo ed di un anti-imperialismo esasperato che lo spinge su posizioni antagonistiche soprattutto nei confronti degli Usa della Gran Bretagna e dei regimi arabi conservatori e lo porta ora  a privilegiare i rapporti con i Paesi arabi progressisti (Siria, Iraq, Yemen del Sud, Algeria) e col blocco dei Paesi socialisti. 
Tuttavia la ricchezza petrolifera, i cui proventi ha sul piano interno indubbiamente redistribuito equamente in opere sociali a favore del suo popolo, sul piano estero gli permette di mantenersi sostanzialmente autonomo da Mosca mentre il suo panarabismo dopo le fallite progettate unificazioni si estrinseca in un fermo anti-sionismo e nel pieno appoggio alla causa palestinese e di tutti quei movimenti politici anche armati (come ad es. l'IRA) che in ogni parte del mondo più si oppongono all'imperialismo americano e britannico, tanto da essere associato da Reagan al terrorismo mondiale. L'anno successivo a questa intervista  di Vené infatti la Libia, nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1986,  subirà il bombardamento di Tripoli e Bengasi (101 le vittime, tra cui una figlia adottiva di Gheddafi, ), effettuato dagli americani in risposta all’attentato terroristico, attribuito a individui libici, in una discoteca di Berlino frequentata da militari statunitensi, mentre già il 16 febbraio i Jaguar francesi, a loro volta, avevano pesantemente bombardato la grande base aerea libica di Ouadi Doum nel nord del Ciad da tempo occupato da Gheddafi.
E' inoltre in questa seconda metà degli anni Ottanta che Gheddafi propone all'esterno con notevoli mezzi propagandistici le sue teorie rivoluzionarie come si vede anche dalla diffusione in Italia del settimanale "Il Jamahiria" edito a cura dei Comitati popolari, del quale nelle foto qui sotto riproduco alcune pagine che mi sembrano fra le più significative di un numero di questa testata che possiedo fra le mie varie collezioni di periodici .
Salute permettendo, per la  serie "Popoli, Paesi e guerre d'oggi" che ho voluto varare in questo mio blog, oltre a tornare sulla vicina Libia, oggetto di una forte offensiva jihadista a partire dalla base Isis di Sirte malgrado il recente tentativo di dar vita ad un governo di unità nazionale, mi soffermerò, partendo dall'attualità ma soprattutto da un punto di vista di riflessione storica, ovviamente su altre situazioni "calde" come Irak, Siria, Curdi, Yemen ecc.
Segnalo sulla Libia il mio precedente post apparso qui su Goriblogstoria360: https://www.blogger.com/blogger.g?blogID=2505500468742874979#editor/target=post;postID=4273541878842153163;onPublishedMenu=allposts;onClosedMenu=allposts;postNum=2;src=postname


   
                        Carlo Onofrio Gori











Prof. Carlo O. Gori,  Prof. Carlo Onofro Gori,  Prof. Carlo Gori Università di Firenze


«"Io un dittatore? E chi l’ha detto?”. Quindici anni fa il colonnello Muhammar Gheddafi cacciava gli italiani dalla Libia.
Il leader sostiene che tutto il potere è del popolo. Non concepisce i partiti e crede solo nella legge del Corano. Mezzo mondo lo accusa di essere un guerrafondaio. di favorire il terrorismo. E degli italiani dice che hanno bisogno di fascismo: vediamo perché. L’estate scorsa, quando il leader della rivoluzione libica Muhammar Gheddafi allontanò dal territorio nazionale alcune decine di migliaia di ospiti africani e rasentò la guerra con la Tunisia, ricorreva il quindicesimo anniversario della cacciata degli italiani. Identiche le giustificazioni addotte, identico il rituale. Le giustificazioni: la repubblica socialista di.Libia impone il lavoro obbligatorio sotto il controllo dello stato. Né il lavoro indipendente l'arte di arrangiarsi sono ammessi. E una questione pratica e morale insieme, e chi trasgredisce questa «morale» sicuramente finirà per delinquere anche in altri settori: dal vino, alla droga, al sesso. Il rituale: il popolo, attraverso i «comitati» nei quali è organizzato, insorge spontaneamente contro gli stranieri indesiderati, quindi la cacciata è (deve essere) plateale e brutale. Gli scacciati devono andarsene con le valigie vuote, simbolicamente (ma non sempre) presi a pedate nel sedere e soprattutto in fretta. Il loro esodo forzato deve essere uno spettacolo del quale il popolo libico è protagonista, mentre la burocrazia assiste impotente. Ai tempi della cacciata degli italiani (estate 1970) i «comitati del popolo» non erano ancora organizzati come adesso, ma per almeno una settimana, a Tripoli, fu pericoloso farsi riconoscere. All'ambasciata si poteva entrare soltanto dopo aver affidato (si fa per dire) il portafoglio a dei picchetti di studenti armati e le sassaiole,sistematiche anche se non feroci, erano lo sport di moda. Come giornalista mi trovai in mezzo a quei pasticci e almeno di una cosa mi resi conto, Quelli che ci tiravano le pietre, ci insultavano direttamente o attraverso giganteschi cartelli, ci sghignazzavano in faccia e manipolavano i nostri portafogli se avevano un distintivo qualsiasi che desse loro autorità militaresca, non avevano alcuna seria intenzione di farei del male. «Finita questa buriana», avevano l'aria di dire (e lo dichiaravano nelle interviste), «noi dovremo tornare amici». Fu allora che incontrai per la prima volta Muhammar Gheddafi. Aveva preso il potere da neppure un anno e pochi giornali nel mondo scrivevano correttamente il suo nome. In Libia era più leggendario che popolare. La sua «rivoluzione bianca» (nemmeno un morto) era intuita più che compresa da un popolo che sapeva benissimo di essere, sotto re Idris, tra i più corrotti e i meno stimati del mondo islamico. Per non correre il rischio di bruciarsi, subito dopo la rivoluzione Gheddafi lasciò che il potere formale, per qualche mese, fosse impugnato da un sindacalista già dipendente di una compagnia petrolifera occidentale del quale si raccontava che fosse stato assunto dall'impresa a patto di lasciare nel cassetto del capo del personale una lettera di dimissioni senza data: «Così, visto che sei sindacalista, al primo tentativo di sciopero ti togli di mezzo». L' 11 giugno di quell' anno, ossia poche settimane prima di decidere 1'espulsione degli italiani dalla Libia (nella dichiarata intenzione di ristabilire con noi dei rapporti in nessun modo inquinati dal colonialismo sia giolittiano sia fascista), Muhammar Gheddafi sconcertò l'opinione mondiale con un atteggiamento che spiegava benissimo sia il suo carattere sia la linea politica che avrebbe tenuto. A Tripoli c'era Rogers, inviato dagli Stati Uniti per trattare con i politici libici il ritiro della base americana. Fuori del palazzo dove si svolgevano i colloqui la folla inveiva, Gheddafi, che in un primo tempo aveva affidato ad altri il compito di rappresentarlo, a un certo punto non ne poté più, entrò nella sala in camicia kaki con la mano sul pistolone sfilato a metà dalla fondina. Appoggiò un piede sulla seggiola, reggendosi il mento con il palmo, in un gesto che gli è tuttora abituale quando discute. «Rogers» (non disse nemmeno signor Rogers) «io non so proprio che cosa lei stia cercando di trattare. Da questo momento lei ha tre ore di tempo per dirmi, con esattezza, quante settimane vi servono per sbaraccare e andarvene. Una settimana o due? Quanto?». Poi disse ancora: Naturalmente ci pagherete l'affitto della terra dal '54 a oggi, l'energia elettrica - che avete consumato, l'acqua, le bollette del telefono, tutto per 16 anni». E concluse: «Intendiamoci: partono gli uomini, non le armi. Armi, aerei, carri armati, missili, apparecchiature se volete p renderli ce li, pagate al prezzo di oggi, e come se fossero nuovi di fabbrica. Qualcosa in contrario? Perché se cqualcosa in contrario lo dico al popolo, qui sotto, in piazza. E ci pensa il popolo a persuaderv. Gli appelli al popolo di Gheddafi si possono chiamare in cento modi diversi. Ma una cosa è certa: quella di addossare al popolo le principali responsabilità politiche ed economi che della vita del Paese è una costante del suo sistema. Nel 1970, quando lo incontrai la prima volta era mattina presto; stavo raggiungendo in taxi 'aeroporto di Tripoli. A un semaforo il taxi affiancò una Land Rover gialla con due militari. Il taxista indicò quello al posto di guida e disse in italiano: «Ecco il nuovo principale». L'abitudine di andarsene tutte le mattine verso il deserto gli durò alcuni mesi: finché il suo volto non divenne troppo noto. Si presentava nelle tende dei beduini, diceva di essere mandato dal governo rivoluzionario, e raccoglieva le lamentele. Le accuse contro Gheddafi: esattamente cinque anni dopo la cacciata degli italiani estate 1975), Muhammar Gheddafi fece sapere di essere disposto a offrire eccellenti posti di lavoro a qualche migliaio di nostri tecnici. A quell'epoca nessuno più osava ripetere la sciocchezza che la Libia, senza l'appoggio degli ex coloni, sarebbe tornata un Paese arido e selvatico. Volenti o nolenti, i viaggiatori stranieri in Libia erano accompagnati a sbattere la faccia contro complessi agricoli e industriali da far spavento. Il porto di Tripoli ingigantito, l'autostrada costiera terminata, il progetto in gran parte realizzato' di assegnare ai beduini nomadi case e pascoli stabili (quando chiesi a Gheddafi se anche suo padre, vecchio nomade, sarebbe stato «costretto» a cambiare mentalità, a farsi sedentario e andare a . vivere nel cemento, mi rispose freddo: «Sarà costretto a cambiare vita anche lui, certamente»). Ma anche le universali accuse contro Gheddafi erano le stesse di oggi. Di essere un leader imprevedibile. Di essere guerrafondaio. Di aver imposto un regime del terrore. Di finanziare il terrorismo internazionale (si diceva che avesse organizzato personalmente l'attentato mortale contro il presidente egiziano Sadat). Di aver liquidato l'Olp di Arafat per appoggiare gli estremisti. Come cronista ero oggettivamente documentato soltanto sul suo mutato (e mutevole) atteggiamento verso gli italiani, quando gli parlai a lungo, un'intera notte, in quella occasione. Ma mi resi conto che con Gheddafi non si può affrontare di petto un solo argomento. Come mai gli italiani potevano tornare in Libia? «Perché è naturale che libici e italiani abbiano reciproci vantaggi nel collaborare, però ... ». Però che cosa? «Al di là dell'interesse pratico, occorre dar prova di buona volontà, creare insieme le basi di una amicizia autentica e quindi una "sintonia morale"». Sintetizzare un discorso di Gheddafi è impossibile. Credo ne sappia qualcosa uno degli uomini politici che lui stima di più, il ministro degli esteri Andreotti, il quale, tuttavia, ha corso dei rischi quando ha cercato di tradurre nella logica occidentale ciò che il leader libico pensa. Dieci anni fa, esattamente come oggi, Gheddafi mostrava di credere negli italiani e si indispettiva nel sentir parlare di stato italiano. Nello stesso modo non parla mai di Libia ma di «popolo libico». Avanti di questo passo si capiscono meglio anche i suoi rapporti, sempre ribaltabili, con le varie nazioni arabe. Nella nuda saletta dove Gheddafi riceve, al secondo piano di una caserma di Tripoli, c'è un grande pannello verde con una specie di bassorilievo d'argento che ha la vaga forma di un cane stilizzato. Non c'è alcuna indicazione, ma è la mappa sognata da Gheddafi: il mondo arabo dall'Atlantico al Golfo Persico, senza confini né indicazioni di Paesi. L'unità del popolo arabo è, nella testa di Gheddafi, un dogma più che una convinzione. E come tutti i dogmi è fuori della storia e dei fatti contingenti. Il fatto che il leader libico annunci al mondo (come ha fatto alcuni anni fa) la fusione tra la Libia e la Tunisia per poi considerare (l'estate scorsa, per esempio) la Tunisia di Burghiba come il suo principale nemico a costo di rasentare la guerra, secondo il suo modo di pensare non implica contraddizione alcuna. Vuole semplicemente dire che lo stato tunisino si è messo contro' gli interessi dei tunisini i quali, in cuor loro e per cultura, devono essere tutt'uno con il popolo libico. Gheddafi non ha certo la pretesa che anche gli italiani, cattolici e occidentali, debbano essere tutt'uno con il popolo libico, ma l'idea di «amicizia», che ritorna infinite volte nella sua predicazione, non è meno dogmatica di quella di «unità araba». Comunque sia, non ha nulla a che fare con le alleanze diplomatiche (è fin troppo palese che Gheddafi non sa nemmeno dove stia di casa la diplomazia). «I nostri due popol, gli ho sentito dire e ripetere, «dovrebbero imporre l'amicizia reciproca a chi li governa». Ma dal momento che in casa sua Muhammar Gheddafi è convinto, unico in tutto il mondo arabo, di aver definitivamente risolto i rapporti tra governo e governati (e si vanta che più di una volta i comitati del popolo abbiano bocciato le sue proposte: quella della coscrizione femminile, per esempio) il giudizio morale sui popoli che non si «autogovernano» sul modello di quello libico è pesantissimo. Credo di essere stato il primo giornalista a raccogliere direttamente da Gheddafi, in termini articolati, l'ormai arcinota pretesa del risarcimento dei danni subiti dal nostro colonialismo fascista e prefascista. Pretesa, sia detto per inciso, che salta fuori ogni anno (e il ministro Andreotti ne sa qualcosa). A parte ogni altra considerazione, quando obiettai a Gheddafi che i nuovi italiani hanno già ampiamente condannato il colonialismo e giudicato il fascismo, e che il loro (nostro) atteggiamento morale non può comunque imporre allo stato un esborso di quattrini adeguato alla richiesta della Libia (è pur vero che, con gli anni, la pretesa è diventata soprattutto simbolica: diventa concreta solo nei momenti difficili della politica internazionale), il leader si mise a ridere e disse testualmente: «Se il popolo italiano si sente in dovere di pagare i danni che abbiamo subito dall'Italia fascista non c'è governo che possa impedir1o. Il popolo può e deve imporre la propria volontà e il governo non deve far altro che ubbidire. Altrimenti ho ragione io quando dico che gli italiani non sono liberi». «Libertà» e «unità del popolo» anche contro il proprio governo sono, per Gheddafi, la testa e la coda di quel serpente acciambellato che è il suo modo di vedere. il mondo. Nella sua idea della «libertà» non c'è alcun posto per le opinioni politiche che in qualsiasi maniera spezzino l' «unità e il potere del popolo». Quindi il maggior delitto politico, secondo lui, il delitto che supera in gravità il terrorismo e la ribellione, è il tentativo di costituire uno o più partiti avversi al partito unico (in Libia l'Unione socialista) e tali da spezzare l'unità popolare. Sull'onda di questo ardito ragionamento, una volta affrontai con Gheddafi la questione del fascismo. Lui, che comprensibilmente ha fatto scalpellare dai monumenti libici tutti i vecchi simboli del regime; lui, che' a quarant'anni dalla morte di Mussolini e dalla fine storica del fascismo continua a rinfacciarci di essere ancora «un po' fascisti» perché non gli paghiamo i danni del colonialismo, non sospetta mai di sbandierare un'idea di «unità popolare» abbastanza simile a quella del partito unico mussoliniano? La risposta fu ai limiti del paradosso: «Se fascismo deriva da "fascio", cioè dall'unione simbolica degli uomini di una nazione, ebbene, in senso linguistico, io l'accetto in pieno. Anche nel Corano c'è la parabola dell'uomo morente che invita i molti figlioli a procurarsi una bacchetta ciascuno, ne fa un fascio e dice: "Restate uniti così, questo è il mio testamento". Una cosa è la politica svolta dai dirigenti fascisti, un'altra cosa è l'idea di fascismo. Senza colonialismo naturalmente. E io credo che l'Italia, come tutti i popoli lacerati dai partiti, abbia bisogno di fascismo». Gheddafi non è un tipo dotato di humour. Pensai tuttavia che non volesse essere preso alla lettera. Gli ricordai che il registratore era acceso. Ricordo che disegnai su un pezzo di carta il fascio littorio: «Senza rigirare tanto intorno al significato linguistico, guardi colonnello che questo simbolo, in Italia, è consegnato a una storia precisa. Lei che ne dice?». Guardò il disegnino, rise forte e ci batté sopra l'indice. «Di questo c'è bisogno in Italia, se l'Italia vuole ritrovare l'unità». A questo punto, anziché di parlare con un capo di stato mi pareva di essere-in un circolo di nostalgici. Fu allora che Gheddafi mi disse: «Fermo restando che l'accusa che più mi ferisce, tra quante me ne rivolgono, è quella di essere un dittatore. lo non comando niente. Qui comandano i comitati del popolo». E per dimostrarmelo mi ricordò quando i comitati del popolo decisero unanimemente l'eliminazione fisica dei transfughi all'estero. Le cronache internazionali, in questi anni, hanno registrato le «sentenze» che sono già state eseguite. Ma anche in questo . caso l'Europa e l'occidente giudicano con un metro incomprensibile a Gheddafi, e viceversa. Per i comitati del popolo libici quei transfughi sono uomini che negli anni settanta, quando la rivolu- zione gheddafiana affrontava lo sviluppo 'economico, Si sono giovati di appalti lucrandoci per decine di miliardi. Ladri maturati all'ombra dell'ingenuità di una rivoluzione in crisi di crescenza (e dal punto di vista economico, aggiungiamo, riuscita mica bene). La lista nera non comprende però gli arricchiti punto e basta: infierisce su coloro che del denaro malguadagnato fanno un uso direttamente o indirettamente politico «ai danni dell'unità del popolo libic. Per il metro comune internazionale sono «oppositori di Gheddafi»; per il metro di Gheddafi sono traditori del principio universale cui tutti i popoli dovrebbero aderire: quello dell'unione. Nel nome dell'unione dei popoli, Gheddafi è quindi potenzialmente un nemico dichiarato di qualsiasi stato anteponga i canoni tradizionali di governo' al dogma per cui il popolo ha sempre ragione, e ha sempre torto se mette in dubbio le ragioni del popolo libicoGian Franco Ve »  ("Storia illustrata", n. 337, dic. 1985)