Il nuovo cinema italiano e il
Risorgimento: Noi credevamo di Mario Martone
Noi
credevamo, ispirato al libro omonimo di Anna
Banti, sebbene film
“patriottico-critico”, era di per sé già destinato,
uscendo alla fine del 2010, a far da battistrada alle previste, “utili” e
“necessarie”, ma “difficili”, Celebrazioni per il 150° dell’Unità, minate dagli
affanni della crisi economica e “costrette” fra le recenti ed ignoranti ripulse
“leghiste” del Nord e le ricorrenti suggestioni neoborboniche della “controstoria”
del Sud.
Il “risorgimentale” film,
inizialmente boicottato dalla distribuzione, ma apprezzato dal pubblico, è
stato poi meritatamente “servito” come “piatto forte” nei dibattiti di molti
eventi celebrativi del 2011, e ciò ha indubbiamente contribuito ad alimentarne
la notorietà (e gli incassi) al contrario di quanto è accaduto ai più recenti,
peraltro più “limitati” nelle ambizioni e anche discutibili, film sulla
Resistenza, quali ad es.: Porzûs di
Martinelli, I piccoli maestri di
Luchetti, il Partigiano Johnny di
Chiesa.
In quattro capitoli, “Le Scelte”
(1828-32), “Domenico” (1852-55), “Angelo” (1856-58), “L'alba della Nazione”
(1862-68), si racconta la storia di tre ragazzi del Cilento che nel
1828 aderiscono alla Giovine Italia prendendo poi vie diverse. Angelo e
Domenico, sono di origine nobiliare, mentre Salvatore è il figlio
del popolo che sconterà quasi subito la sua condizione subalterna perché,
creduto traditore, verrà ucciso da Angelo, il più invasato, che finirà poi
travolto dai suoi stessi ideologici furori. Ma sarà soprattutto con lo sguardo
di Domenico, idealista ma “umano”, che gli spettatori ripercorreranno alcuni
episodi della storia del Risorgimento. Argomento questo trattato da lunga data
nel cinema italiano dove, a prescindere da regimi e governi, registi
come Blasetti, Brignone, Gallone, Rossellini, Visconti,
De Sica, Alessandrini, Rosi, il prolifico Magni, e solo per citarne alcuni,
hanno soprattutto dato fiato all’immagine “ufficiale”, edificante ed eroica,
della “vulgata” risorgimentale. Martone usa invece quella nostra storia come
pretesto e metafora e ne sottolinea i lati oscuri e le contraddizioni.
Tuttavia chi rammenta opere come Allonsanfan, Quanto è bello lu murire acciso, Bronte sa che, in senso antiapologetico,
il cinema italiano, nella temperie politica degli anni ’70, si era già espresso
sul Risorgimento con opere di assoluto vigore nel solco della linea
interpretativa di Salvemini e Gramsci: democratica, repubblicana e
meridionalista.
Del resto lo stesso Martone (“L'Espresso”, 11 ottobre 2012 pag. 103) ha
affermato: "Ho girato Noi credevamo
mirando a ciò che è sotto la pelle della storia, ho cercato di cogliere il
clima esistenziale vissuto da ragazzi diventati uomini e mai piegati sotto il
peso di una lotta disperata, quei mazziniani antenati dei partigiani, dei
movimenti degli anni '60 e '70, dei democratici che in Italia conoscono una
storia drammaticamente altalenante, tra faticate vittorie e continue sconfitte”.
Anche in tal senso il film di
Martone, per sin troppo evidente somiglianza, richiama alla memoria La meglio gioventù
di Marco
Tullio Giordana che nel 2003 ebbe vasto successo: non a caso il bravo Luigi Lo
Cascio è il fil rouge di ambedue i film, il Nicola di Giordana e il Domenico
dell’età matura di Martone.
Nel film, il ’48 e la Repubblica
romana, l’impresa dei Mille (quasi si volesse evitare il confronto con i
registi che questi fatti li hanno ampiamente trattati, oppure di scivolare
nella retorica risorgimentale) compaiono solo come echi lontani, infatti gli
eventi rappresentati sono: il cruento epilogo dei moti antiborbonici del
Cilento, la fallita eliminazione di Carlo Alberto, i moti del 1834 in Savoia,
l’attentato di Orsini contro Napoleone III, ed infine, l’Aspromonte del ’67, che
per i democratici segnerà la fine delle residue speranze mazziniane e
garibaldine e sancirà il trionfo del
patriottismo “moderato” nel segno della sabauda “diplomazia-armata”,
espansionistica e repressiva.
Un film
importante e dalle grandi ambizioni e allusioni, ed è
questo il suo vero limite: una materia ampia che Martone e il suo sceneggiatore
Giancarlo De Cataldo, smarrendo a volte lo slancio narrativo, fatalmente sono
spesso costretti a sintetizzare con la necessità di un didatticismo incombente
che sottrae passione e anima ai personaggi indulgendo invece in “facili” immagini
provocatorie che ci riportano al presente, come la modernità della scala
metallica percorsa da Angelo e Orsini verso la ghigliottina o i pali in cemento
armato delle case mai finite, oggi frequenti nel paesaggio del nostro Meridione.
Inoltre non sempre risulta in equilibrio il mix realtà/finzione-figure di
fantasia/personaggi storici. Di quest’ultimi Martone, rispetto ai “padri della Patria”,
ne privilegia alcuni fra i “secondari”: generosi idealisti come la Belgiojoso e
Orsini a fronte di un Crispi, figura
emblematica del tradimento degli ideali repubblicani, ma anch’essi, in questa
filologica ricostruzione, sono forse quelli meno riusciti poiché appare in loro
un qualcosa di irrisolto. Resta sullo
sfondo, molto defilato, un Mazzini-Servillo (qui già vecchio dal 1830, quando aveva
solo 25 anni!), mentre Garibaldi, a cavallo sulla vetta di un colle, è solo una
notturna
evocativa ombra, in una scena suggestiva, ma un po’ melodrammatica.
Su altri piani di analisi il film
è notevole: la colonna sonora, diretta da Roberto Abbado, propone musiche coeve
da opere di Verdi, Rossini e Bellini, mentre il canto popolare Camicia rossa accompagna i titoli di
coda; la scenografia nella ricostruzione ambientale è valida; oltremodo
suggestiva la fotografia di un ‘800 pittorico macchiaiolo ed impressionista.
Insomma,
soprattutto se visto più d’ una volta (e
in ciò il tour celebrativo facilita),
indubbiamente un buon film, malgrado che, come si sa, la pervicace
ricerca dell’ottimo sovente possa essere... nemica del buono.
Carlo Onofrio Gori
Questo articolo è riproducibile parzialmente o totalmente previo consenso o citazione esplicita dell'Autore.
Articolo pubblicato in: "Il Grandevetro" , n. 215 [109 n.s.] (mag.-giu. 2013)
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