giovedì 15 agosto 2013

C.O. Gori. Risorgimento. Il nuovo cinema italiano e il Risorgimento: Noi credevamo di Mario Martone

Il nuovo cinema italiano e il Risorgimento:  Noi credevamo di Mario Martone

Noi credevamo, ispirato al libro omonimo di Anna Banti, sebbene  film “patriottico-critico”, era di per sé già destinato, uscendo alla fine del 2010, a far da battistrada alle previste, “utili” e “necessarie”, ma “difficili”, Celebrazioni per il 150° dell’Unità, minate dagli affanni della crisi economica e “costrette” fra le recenti ed ignoranti ripulse “leghiste” del Nord e le ricorrenti suggestioni  neoborboniche della “controstoria” del Sud.
Il “risorgimentale” film, inizialmente boicottato dalla distribuzione, ma apprezzato dal pubblico, è stato poi meritatamente “servito” come “piatto forte” nei dibattiti di molti eventi celebrativi del 2011, e ciò ha indubbiamente contribuito ad alimentarne la notorietà (e gli incassi) al contrario di quanto è accaduto ai più recenti, peraltro più “limitati” nelle ambizioni e anche discutibili, film sulla Resistenza, quali ad es.: Porzûs di Martinelli, I piccoli maestri di Luchetti, il Partigiano Johnny di Chiesa.
In quattro capitoli, “Le Scelte” (1828-32), “Domenico” (1852-55), “Angelo” (1856-58), “L'alba della Nazione” (1862-68), si racconta la storia di tre ragazzi del Cilento che nel 1828 aderiscono alla Giovine Italia prendendo poi vie diverse. Angelo e Domenico, sono di origine nobiliare, mentre Salvatore è il figlio del popolo che sconterà quasi subito la sua condizione subalterna perché, creduto traditore, verrà ucciso da Angelo, il più invasato, che finirà poi travolto dai suoi stessi ideologici furori. Ma sarà soprattutto con lo sguardo di Domenico, idealista ma “umano”, che gli spettatori ripercorreranno alcuni episodi della storia del Risorgimento. Argomento questo trattato da lunga data nel cinema italiano dove, a prescindere da regimi e governi, registi come Blasetti, Brignone, Gallone, Rossellini, Visconti, De Sica, Alessandrini, Rosi, il prolifico Magni, e solo per citarne alcuni, hanno soprattutto dato fiato all’immagine “ufficiale”, edificante ed eroica, della “vulgata” risorgimentale. Martone usa invece quella nostra storia come pretesto e metafora e ne sottolinea i lati oscuri e le contraddizioni. Tuttavia chi rammenta opere come Allonsanfan, Quanto è bello lu murire acciso, Bronte sa che, in senso antiapologetico, il cinema italiano, nella temperie politica degli anni ’70, si era già espresso sul Risorgimento con opere di assoluto vigore nel solco della linea interpretativa di Salvemini e Gramsci: democratica, repubblicana e meridionalista. 
Del resto lo stesso Martone  (“L'Espresso”, 11 ottobre 2012 pag. 103) ha affermato: "Ho girato Noi credevamo mirando a ciò che è sotto la pelle della storia, ho cercato di cogliere il clima esistenziale vissuto da ragazzi diventati uomini e mai piegati sotto il peso di una lotta disperata, quei mazziniani antenati dei partigiani, dei movimenti degli anni '60 e '70, dei democratici che in Italia conoscono una storia drammaticamente altalenante, tra faticate vittorie e continue sconfitte”.
Anche in tal senso il film di Martone, per sin troppo evidente somiglianza, richiama alla memoria La meglio gioventù  di Marco Tullio Giordana che nel 2003 ebbe vasto successo: non a caso il bravo Luigi Lo Cascio è il fil rouge di ambedue i film, il Nicola di Giordana e il Domenico dell’età matura di Martone.
Nel film, il ’48 e la Repubblica romana, l’impresa dei Mille (quasi si volesse evitare il confronto con i registi che questi fatti li hanno ampiamente trattati, oppure di scivolare nella retorica risorgimentale) compaiono solo come echi lontani, infatti gli eventi rappresentati sono: il cruento epilogo dei moti antiborbonici del Cilento, la fallita eliminazione di Carlo Alberto, i moti del 1834 in Savoia, l’attentato di Orsini contro Napoleone III, ed infine, l’Aspromonte del ’67, che per i democratici segnerà la fine delle residue speranze mazziniane e garibaldine e sancirà  il trionfo del patriottismo “moderato” nel segno della sabauda “diplomazia-armata”, espansionistica e repressiva.
Un film importante e dalle grandi ambizioni e allusioni, ed è questo il suo vero limite: una materia ampia che Martone e il suo sceneggiatore Giancarlo De Cataldo, smarrendo a volte lo slancio narrativo, fatalmente sono spesso costretti a sintetizzare con la necessità di un didatticismo incombente che sottrae passione e anima ai personaggi indulgendo invece in “facili” immagini provocatorie che ci riportano al presente, come la modernità della scala metallica percorsa da Angelo e Orsini verso la ghigliottina o i pali in cemento armato delle case mai finite, oggi frequenti nel paesaggio del nostro Meridione. Inoltre non sempre risulta in equilibrio il mix realtà/finzione-figure di fantasia/personaggi storici. Di quest’ultimi Martone, rispetto ai “padri della Patria”, ne privilegia alcuni fra i “secondari”: generosi idealisti come la Belgiojoso e Orsini a fronte di un  Crispi, figura emblematica del tradimento degli ideali repubblicani, ma anch’essi, in questa filologica ricostruzione, sono forse quelli meno riusciti poiché appare in loro un qualcosa di  irrisolto. Resta sullo sfondo, molto defilato, un Mazzini-Servillo (qui già vecchio dal 1830, quando aveva solo 25 anni!), mentre Garibaldi, a cavallo sulla vetta di un colle, è solo una notturna evocativa ombra, in una scena suggestiva, ma un po’ melodrammatica.
Su altri piani di analisi il film è notevole: la colonna sonora, diretta da Roberto Abbado, propone musiche coeve da opere di Verdi, Rossini e Bellini, mentre il canto popolare Camicia rossa accompagna i titoli di coda; la scenografia nella ricostruzione ambientale è valida; oltremodo suggestiva la fotografia di un ‘800 pittorico macchiaiolo ed impressionista.
Insomma, soprattutto se visto più  d’ una volta (e in ciò il tour celebrativo facilita),  indubbiamente un buon film, malgrado che, come si sa, la pervicace ricerca dell’ottimo sovente possa essere... nemica del buono.


                                                                                                               
               

                            Carlo Onofrio Gori









Questo articolo è riproducibile parzialmente o totalmente previo consenso o citazione esplicita dell'Autore.


Articolo pubblicato in: "Il Grandevetro" , n. 215 [109 n.s.] (mag.-giu. 2013)












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